Informo i lettori di questa pagina, cui va la mia gratitudine, che possono lasciare
commenti e impressioni nelle apposite aree riservate ai "contatti" e ai "com- menti". Grazie!
Ieri ho scelto di tacere, ne scrivo oggi...
Provate a immaginare un mondo cupo, dove il terrore non è qualcosa d’improvviso e occasionale ma ripetitivo, costante, ossessivo.
Immaginate di vivere l’incubo di una violenza che non viene da «fuori», ma nasce e si consuma all’interno dei luoghi più familiari e rassicuranti. E spesso ha un volto noto, consueto, abituale.
Immaginate una violenza che esplode senza preavviso, senza ragione. Provate a pensare cosa vuol dire avere costantemente paura, vivere una crescente insicurezza
che si trasforma in ansia.
E immaginate di perdere l’autostima, il senso della realtà, la capacità di definire quello che succede e dargli un significato. Provate a immaginare l’angoscia di
un’esistenza parallela, opaca al mondo esterno; di provare vergogna per gli abusi subiti e custodire il segreto di violenze indicibili, perché il racconto può non essere creduto, oppure
minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero rappresentare la vostra rete di protezione.
Ecco, dopo aver immaginato e pensato vorrei lanciare assieme a Voi un urlo, vorrei le nostre mani, la nostra ragione, le nostre speranze diventassero un tutt'uno, il filo di un'unica trama,
di uno stesso disegno dal quale compare quel mondo nuovo costellato di umanità e gioia di vivere...
vf
opera di Maria
Luigia Cirillo
In questi giorni di orrendi femminicidi faccio dono a quante/i desiderano riceverlo del mio poemetto-monologo "Lo scandalo della verità".
Lo scandalo della verità. Appunti su Medea
Nota introduttiva
E' pratica millenaria quella di subordinare l'universo femminile al potere degli uomini. Il breve monologo da me
scritto non si ispira alla tragedia di Euripide, rappresentata durante le feste in onore di Dioniso nel 431 a.c., che vede Medea soprattutto come la madre che ha ucciso i propri figli, bensì al
testo di Christa Wolf, scrittrice tedesca contemporanea scomparsa nel dicembre 2011, la quale, rivisitandone il mito, propone una chiave di lettura, un'inter-pretazione e una prospettiva
storico-culturale completamente differente, per certi versi una vera e propria operazione verità della vicenda al centro della famosa tragedia euripidea. Rinviando coloro che fossero interessati
al testo della Wolf (Medea, Voci ed. e/o, Roma, 2005 pag. 228), tengo solo a sottolineare la modernità e l'attualità di questa figura che la pagina dell'autrice tedesca connota in rapporto alle
contraddizioni e alla violenza della cultura dominante a Corinto. Di Medea, ecco il punto, considerata dai greci la “straniera”, "la barbara" venuta dalla Colchide, altro dal loro mondo, guardata
con spregiativa diffidenza in virtù del suo essere donna e maga, detentrice di un remoto sapere del corpo e della terra, l'indovina col "dono del doppio occhio" e per questo ritenuta pericolosa.
Non un'infanticida dunque, ma una donna travagliata sì dall'amore, che lotta però per affermare sensibilità e valori propri delle donne, riguardo non solo i sentimenti, la famiglia, l'amore, il
rapporto uomo-donna, ma anche rispetto il contesto socio-culturale e politico, affrontando – in ultima analisi – il nodo del potere e delle regole, spesso menzognere ed escludenti, su cui si
fonda lo stato.
(Vladimiro Forlese)
Lo scandalo della verità
(Appunti su Medea)
E’ ormai giorno sul mare dei greci
ma nel mio cuore profondo ancora la notte
mi punisce. O madre mia
non ti riconosco più
non sei più tu
la Vergine dal sangue verde e dai bulbi
d’oro
offerta al morso degli aliti,
non sei più tu
Planta, la Donna della Vegetazione
che scolpì le mie ossa
dal tronco del Vecchio Albero,
che mi donò mammelle di fuoco e d’arancia.
Nemmeno te più riconosco
padre mio, Sole, voce di rame
a cui innalzavo giuramenti
per reggere il peso di quanto ha da venire
e il vessillo dei miei occhi gridando
“ son viva!"
Né riconosco i monti, il profumo
sottile dei fiori e, in alto nei cieli,
l’Eretteo degli Uccelli
e le tramontane che tracimano gagliarde
fuori dal macigno, libere
di nuotare nella giovinezza delle nubi,
sopra... sopra
ciò di cui gli uomini si fanno misura
sotto... sotto
nei recessi dell’anima
dove l’albero del cuore sale l’abisso
e azzarda
coi suoi rami un ultimo urlo. No!
no, non riconosco più nulla.
O figli degli uomini:
che posso ormai dire?
Cose orrende la terra porta
e ancora più orrende l’anima.
E voi verrete a portar via i miei sogni...
Ma chi leggerà nei vostri?
Voi verrete a portar via il mio pensiero..
Ma il vostro a chi lo ripeterete?
Voi verrete alla mia casa
dai pendii che guardano il mare
e nei vostri occhi non sarà più Medea
che amava salutarvi affacciata
alla finestra larga dei limoni
ma la straniera, la barbara
la maga, la nemica...
Avvicinati nutrice, dimmi del sole
dei bambini: breve è la felicità che ci
resta.
E’ amaro dirlo
ma stava alla nascita, nel mio essere
femmina
il dolore d’esistere. Bambina
m’illusero fosse per sempre
vita quel firmamento di luci
nei miei occhi che conobbero il mare.
Dicevano
“sei bella Medea, corri, corri.”
Ed io a tutti andavo incontro,
leggera e felice nel mio abito
svolazzante,
con un sorriso coperto dai capelli
e la gioia d’essere
stata donata alla terra.
Poi, donna, compresi l’agguato:
fui corpo
da cui i maschi predarono sonorità e
bellezza;
di cui parlarono famelici, ululando come
lupi.
“Sei cresciuta Medea, sei cresciuta” dicevano...
Oh nutrice
ancora ieri Giasone,
il mio sposo, l’eroe,
chinato a questi seni,
su questo mio ventre bruno
ha bevuto miele
senza mai intuire il mistero, la fonte
che lo dissetava. Eppure
da sposa fui fedele,
recisi vincoli remoti, m’arresi
per amore
polsi e ginocchia al divorante Amore.
Ma fui spregiata, abbandonata, ignorata
come solo un uomo sa fare
quando altrove cavalca nuovo piacere.
Ora eccomi qui,
ostaggio e carceriera di me stessa,
relegata ai figli, straniera
nella mia casa, straniera
ovunque non sia trama di luce l’esistere.
Qui
come la fiammella di un lumino
esposta a venti venuti col buio
che mi frugano con i loro arti
crudeli, insanguinati.
Qui
senza più speranza senza più paura
dolore, gioia...
Oh dei venerati:
il mio pianto sale al cielo, vi giunge
e non vi commuove. Cosa mi resta?
Ma qui non c’è nessuno a cui lo possa
chiedere...
Indomita e orgogliosa dicevano di me a
palazzo,
timorosi del mio doppio sguardo,
che la mia scienza potesse scalzarli,
quei vittoriosi dal sangue precocemente
invecchiato,
eroi che si nutrono del profumo dei
cadaveri.
Hanno avuto paura della verità
mia nutrice, dolce amica.
Lo so
qui, prima che sia notte
si perpetuerà l’inganno
sacrificale e maschile.
E diranno che è la legge...
Femmine cieche e sciocche: guardate!
guardatemi: vorrei poteste ascoltarmi.
Siamo tutte bambole, schiave
di pezza al mercato dei capricci del mondo
e come bestie ferite fra noi ci azzanniamo
e rivaleggiamo perché lui,
il cacciatore e padrone,
brandendo un ferro, la mano,
il sesso, la legge
domani ci sottometta al suo volere.
Miei dei: quanto orrore!
Grande è lo sdegno, l’ira
come prima immenso era l’amore
per un uomo che adesso il cuore disvuole.
Nutrice... nutrice... chiama i miei figli,
presto sarà sera
e verrà la luna
ad accarezzargli i capelli, a pettinarli
di luce, come faceva con me
quando ero bambina
e piano piano leniva nel sonno
ogni mia pena.
Che ne sarà di me esule nel mondo,
cosa resterà del mondo in me?
Non ho più forze.
In gola la voce s’assottiglia,
fonde nel petto, brucia
insieme alla prima stella in cielo
l’anima mia capace d’intuire il mistero,
spiragli di luce dal più profondo buio,
per essere ciò che la Natura mi fece.
Presto mia Luna. Presto madre mia, presto:
un uomo non è il mondo
anche se è per amore
l’orrore cui vado incontro
rivendicando originaria chiarezza,
lo scandalo della ragione nella mente
d’un popolo allo sbando.
Ora
nessuno dica: Medea fermati,
sottomettiti,
salva così i tuoi figli dal flagello.
No, no!... come potrò, miei dei,
come potrò figli miei sopportare
i vostri corpi esangui, sacrificati
al delirio di chi maneggia lo Stato
perché continui
lo Stato...
Vorrei ora la mia voce
volasse alta,
su... su...
fino al diapason del grido
per dirvi ecco sono Medea,
tutta sola, inespugnabile
che cammina e le orme svaniscono
dinanzi quanti non hanno il Carnefice
ammazzato in se stessi.
Medea
la barbara, la donna che arma il suo cuore
e vi condanna
al vostro scellerato sopravvivere.
Io non riconosco più nulla in voi d’umano.
Bocconi vi vedo
dove calano impetuosi gli avvoltoi
a godere il fango delle vostre viscere
e il sangue.
O madre mia,
la conoscenza che mi desti in dono
qui mi condanna
fa di me un inutile vaso di sapere,
qualcosa di sconosciuto alle loro
coscienze,
un io diviso dalla loro storia, qualcosa
che mi cancella dall’infinito cielo,
dalla vita intera.
Eppure penso un mondo,
un tempo, un altrove
in cui sia di nuovo bello vivere,
come merita la vita.
Ma qui non c’è nessuno
a cui io lo possa chiedere...
Per una poetica
dello sguardo mediterraneo
I mari Mediterranei impariamo, ciascuno il suo, a guardarli, ad assaporarli, a sentirli sulla pelle, ad
ascoltarli, a raccontarli, fin da bambini e sono tanti quanti sono i punti di vista dai quali si possono conoscere.
Per ognuno di noi, che ci affacciamo a questo mare, il Mediterraneo è un altro mare, ogni nome con cui è stato
nominato,Mare Nostrum, al iam, ilel,det, al-bahrat al-bayad,
Méditerranée, Mesogea, Mediteraneo, Mediterraneo, non sono sinonimi.
C’è una poetica dello sguardo che ci accomuna proprio perché è un insieme di diversità, un intreccio di
immaginari.
Guardare in questo senso è il risultato di una lunga educazione, un’azione che
impegna tut- to il corpo e d’una tale intensità da depositarsi sul paesaggio stesso. Il corpo e il paesaggio sono continui l’uno nell’altro: pelle nella roccia, nella rena o nell’onda respirano
insieme.
René Fregni ce ne dà un assaggio:
Improvvisamente ho creduto di
sentire il suo respiro, più vasto dell’orizzonte, più profondo
di un sonno. Ne ero ancora lontano, ma sapevo che era là.
Dietro le mie tempie batteva il mare.
Pelle nella pelle, uomo e paesaggio fanno parte diun unico corpo che pulsa tutto insieme, all’unisono. Questo doppio appartenersi fa sì che lo sguardo depositato siaa sua volta possibileguardarlo, si apre ed è condivisibile da tutti coloro che hanno imparato a
guardare nello stesso modo.
Uno sguardo palpabile sul profilo di colline, montagne, onde e rocce, nuvole, luci, battigie, alberi o venti con
i quali siamo venuti su. E’ un gesto assolutamente individuale che diventa memoria per molti.
Nel deserto, per esempio, in alcuni punti, dove non ci sono profili a cui aggrapparsi, gli sguardi di secoli,
depositandosi l’uno sull’altro, diventano quella luce così intensa, secondo Malika Mokkedem.
"Una luce così intensa che era come una quintessenza di sguardi.
Gli sguardi di tutte quelle generazioni di nomadi che, da secoli,
passano e vanno nel deserto senza mai lasciare una traccia. Solo i loro
sguardi, come una memoria, abitano nella luce”.
Per ognuno di noi quell’angolo di mondo è il mondo,è il viso di uno di famiglia, è la propria porzione di inferno
e di paradiso, di intimità.
Corrado Alvaro, in una splendida pagina del suoItinerario italianola descrive così:“e una natura sottile come quella del
Mediterraneo lavorata dalle piogge, dai venti e dal mare, vecchia e ossificata come i secoli, giovane come le stagioni. Insomma il Falero e l’Olimpo, il Soratte e il Vesuvio, le Alpi e i Colli
Euganei, hanno il profilo diun parente o di un amico. Nessuno sa in che consista il
loro fascino; forse i monti sono i profili e le facce della terra su cui si fissarono sempre gli occhi degli uomini”.
E’ la radice, il luogo della forza e dove sappiamo che ci si può abbandonare, è il bagaglio interiore che ci
assicura la sopravvivenza anche all’altro capo del mondo. E’ la leva che tiene in piedi qualsiasi migrante, è l’alfabeto della sua lingua di cartone.
L’educazione a questo sguardo è lunga, non è lezione di parole, ma di silenzi, bisogna saper arrivare dove lo
sguardo abbraccia, un punto che si conquista sulle orme di chi ci precede, dopo un lungo cammino d’ascesa alla sommità o di discesa seguendo il sentiero dell’acqua d’inverno verso il mare.
Del mare che abbiamo imparato senza nessuna scienza ma solo
abitandoci accanto, come un parente più grande, come la casa dove
siamo nati, come un vicino, un silenzio, una solitudine, un mattino.
In questo apprendere camminando, nasce anche un ritmo del pensiero, nell’accordo tra uomo e paesaggio, quello che
Franco Cassano definisce “pensiero necessario” e che Nietzsche indicava come gli unici pensieri cui dar credito.
E’ un gioco di specchi nel quale si incrociano i tratti dei volti di persone e dei paesaggi con cui siamo
cresciuti, lì i mediterranei si riconoscono, s’incontrano e talvolta si scontrano pro-prioper questo.
Per Moncef Ghachem, poeta e pescatore a Mahdia, per esempio, esiste un linguag- gio comune ai
pescatori del Mediterraneo che, sebbene abbiano un nome diverso talvolta anche nello stesso paese per nominare i pesci e gli attrezzi da pesca, con i gesti e lo sguardo si intendono senza
traduzione, la stessa forza nello strattonare la lenza al momento giusto, lo stesso ritmo del remo.
Negli scali del mio viaggio, ho vissuto il mattino a fianco del pescatore marsigliese, macedone,
egeo, siciliano, catalano, còrso... come con un pescatore di Mahdia. C’è di fatto una comunità di pescatori del Mediterraneo...
che si intendono, si spalleggiano.
E’ un silenzioso fare insieme gli stessi gesti con lo stesso ritmo.
Le forme della propria terra, del proprio mare assumono su di sé la leggerezza della gioia del ritorno e il
fardello della nostalgia, della lontananza. Ma proprio per il gioco degli specchi possiamo trovare un altrove dietro casa o forme note in paesi lontani della stessa regione mediterranea.
Al mediterraneo che viaggia sulle rive di questo mare, che sbarca sulle isole, che arriva nell’entroterra capita
spesso di avere la sensazione che benché si sia spostato fisicamente, si senta a casa propria, a suo agio. Si ritrova il proprio angolo visivo, un odore, la ruvidità d’un tronco, un richiamo, il
ritmo di una filastrocca, l’andamento di una camminata, il gesto d’un mestiere, i passi di un ballo. Tutto questo lo fa apparte- nere a uno spazio molto più vasto di un singolo paese che gli è
stato assegnato di nascita dal destino e spesso disegnato dalla geopolitica d’altro canto. Il mare, in questo caso al singolare partecipa anch’esso al gioco degli specchi, non allontana, ma
riflette un’altra parte di noi stessi.
diCostanza Ferrini
da L’area di Broca, Semestrale di letteratura e conoscenza, n° 100-101 2014-2015
Ilmio no! ai rigurgiti nazifascisti in atto lo esprimo con questo
canto...
Guerre, profughi e annegamenti
È l’intero modello di sviluppo che governa il pianeta che va portato sul banco degli imputati. Dev’essere processato il
perdurante retaggio del colonialismo, il più vasto crimine della Storia, con i suoi travestimenti odierni, le sedicenti guerre umanitarie, il land grabbing (il
ladrocinio delle terre).
Questo modello considera gli esseri umani merce vile e i poveri, deiezioni di scarto. Come «carta dei diritti» ha il libro
contabile dei privilegi e per obiettivo unico, l’ipertrofia dei profitti tramite l’esproprio privatistico dell’intero creato.
Il potere finanziario e politico-finanziario, si serve per i propri fini, dell’immiserimento dell’econo- mia reale e
soprattutto della riduzione progressiva del lavoro a nuova servitù. Le immense masse di disperati generati dalle guerre «glocali», dalle migrazioni conseguenti e dal- l’accaparramento
illimitato delle risorse, costituiscono un’inesauribile riserva di lavoro servile all’infimo costo della pura sopravvivenza.
Lo scrittore esordiente. Lettera semi-seria al mondo
Mi sento come quel tal Grisostomo (senza, però, i propositi di Berchet) nel raccontare questa piccola (o forse grande, ma questo giudicatelo voi) storia. Eccola...
* Caro Mondo,
1- Dicono, i più saggi di me, che quanto ti capita nella vita sia, in qualche modo, propedeutico per affrontare con maggiore consapevolezza e conoscenza le tappe successive, a meglio misurare i
passi delle strade da calpestare. Più banalmente a imparare. Facendone tesoro, indosso questo vestito popolar-filosofico e mi chiedo: cosa ho imparato dal nuovo stato di scrittore esordiente che
da qualche tempo mi connota?
Lasciatemi, prima di spalancare la porta del racconto, che mi affacci da una finestra del giro scala e mi liberi subito di una parola grossa, ingombrante: scrittore. Anche se è da anni che
riempio fogli e taccuini, scrittore è parola grande, contiene un mondo, e forse più di uno. Bisognerebbe usarla con parsimonia, come per gli aggettivi. Meglio allora apprendista o, pur se l’età
mi contraddice, giovane di bottega, appena appena avvezzo ai ferri del mestiere.
Per il tempo che ho davanti, già ambire al podio di artigiano sarebbe un bel traguardo. Chissà, magari mi sbaglio, ma credo che scrittore uno non lo diventi mai. Già percorrere il mondo, il tempo
che ti è dato, è cosa improba, figurarsi quando sono due, dieci o mille. Una vita non basta caro Narciso che alloggi nei piani alti del mio corpo. Frena ardore e vanagloria, tornio e lima meglio
fotografano l’idea del banco da lavoro, della mia officina ogni tanto accesa da un barlume di sole.
Che ho imparato? Una cosa certamente l’ho appresa: il valore della parola esordiente che, nell’epoca nostra, equivale – lo dico con un’immagine – ad un piccolo esserino dinanzi una montagna,
senza alcuno strumento per scalarla se non le mani e le sue sole forze. Scusate il paragone, ma mi sento come i miei figli alla ricerca di un ruolo nel mondo. La condizione di esordiente mi ha
avvicinato ai figli, al loro travaglio, a comprendere sino in fondo quel sentimento (dagli adulti spesso vissuto con sbrigativa superficialità) di illusa disillusione che accompagna le loro vite
precarie, legate a un filo, a un Sì o un No pronunciato da qualcuno dietro una scrivania.
2- Dicono, quelli più esperti di me, che se hai valore, talento, prima o poi qualcuno se ne accorge. E magari sarà, in astratto, pure vero. Per l'appunto, in astratto, perché (e sono i numeri a
confermarlo) in concreto sono più quelli che restano sconosciuti rispetto a quanti emergono dalla palude. Io diffido delle affermazioni piene di buon senso. Spesso sono alibi dietro cui
nascondere l’inosservanza e l’incapacità di rispettare principi posti a fondamento di una società civile, evoluta. A cosa mi riferisco? Tanto per cominciare al dettato costituzionale che
garantisce ai propri cittadini gli stessi mezzi e opportunità per affrontare e costruire la propria vita. Più semplicemente, tutti uguali al nastro di partenza.
Vi risulta che sia così? Vi risulta che in ogni settore della vita culturale o produttiva sia questo il metro ispiratore?
Dicevo del talento, della possibilità e opportunità di vederselo riconosciuto. Nel mio caso, un editor di una casa editrice ha letto quanto avevo scritto e ha deciso di pubblicare il libro. Non
vi nascondo la soddisfazione! Un po’ di sano auto-incensamento e qualche bicchiere di vino ci stanno, rientrano nella norma. Ciò che invece non ci sta è l’incontro/scontro con l’altra faccia
della filiera, qualcosa cui non pensi minimamente quando sei seduto davanti alla tastiera e ti danni per un sostantivo o un verbo che espliciti con chiarezza la tua spinta creativa. Di che parlo?
Della parabola che parte dalle dita sui tasti intente a comporre frasi e capitoli e arriva (quando va bene) al soggetto/oggetto del tuo lavoro, al lettore, passando per il MERCATO.
Già, il mercato, con le sue leggi e regole, dove un libro scopri essere null’altro che un prodotto, merce, particolare fin quanto si vuole, ma merce, che sta alla pari di tutte le altre merci
prodotte per essere vendute, per realizzare profitto. Quel quid che monetizza/compensa il tuo lavoro, l’impresa editoriale, il business del distributore e i realizzi del libraio.
3- Scrivo conscio di non rivelare su questo aspetto nulla di nuovo, come quando si osserva una fotografia che fissa un dato di realtà, bene o male, conosciuto da tutti. Uno osserva e dice: ah,
sì… è così, punto. Punto un bel niente! Sgraniamo gli occhi e utilizziamo persino una lente per guardarla bene quest’istantanea della realtà.
Il mio è il punto d’osservazione dell’autore esordiente, pubblicato da una piccola casa editrice. Il che significa libro introvabile in libreria e speranza di vendita affidate unicamente agli
store online.
4- In Italia, dicono i più informati di me, si pubblicano ogni anno circa sessantamila titoli. Una cifra enorme se rapportata ai volumi di vendita complessivi. In questo mare di carta c’è di
tutto e di più. La parte degli squali la fanno alcuni soliti noti cui s’aggiungono, non si sa né il come né il perché, di volta in volta nomi che appaiono improvvisamente dal cilindro. Basta
affacciarsi in qualunque libreria per toccare materialmente con mano quanto ho appena affermato. In questo vortice, allora, qual è la sorte dell’autore esordiente?
5- Ecco che ritorna l’immagine di te davanti la montagna. T’interroghi sulla storia che hai scritto, magari la rileggi e nel farlo ripensi alle notti e ai giorni passati sulla tastiera. Ti prende
lo sconforto, la montagna è alta, ripida e talmente scivolosa che ogni appiglio frana. Nonostante ciò non vuoi darla vinta, ti arrabatti, pensi e inventi, rompi le scatole su facebook, fai
appello alla lettura, chiedi supporto: all’amico giornalista, a qualche sito che si occupa di libri e, alla fine, organizzi presentazioni. E qui, altro calvario: per giorni e settimane appeso a
un Sì o a un No di questa o quella associazione, ai capricci o ai programmi del gestore di un caffè letterario o di una biblioteca. Infine (non avendo distribuzione in
libreria), ti carichi i tuoi libri nella sporta e fai il giro: “Buongiorno signor libraio, mi chiamo Vladimiro e sono l’autore di questo bel romanzo. Ne prenderebbe un po’ di copie in conto
vendita?”. Quello, il libraio, dopo averti ben bene squadrato, volge lo sguardo agli scaffali già stracolmi di volumi. E quando, dopo aver fatto con gli occhi il giro dell’intero arma- mentario
esposto che (glielo leggi in faccia, nelle rughe di espressione) gli pesa in modo soverchiante sul groppone, ti mette gli occhi negli occhi e dice: “Signor mio, se vuole me li lasci”
accompagnando le sue parole con un scrollar di spalle che è peggio di una sentenza.
Del libro, della storia che hai scritto importa quasi a nessuno: è merce, se vende bene, altrimenti dritta al macero…
Da una pagina di appunti persa e ritrovata...
"C’è un tratto, una notazione appuntata a margine di un paragrafo, nel quale questa sensazione assume proporzioni gigantesche. La riporto come l’ho scritta:
“1- confronto tra la realtà e il sogno o, meglio, tra realtà e ideali, tra l’essere e il vorrei essere;
2- il titanismo dell’io che indispone al noi… “.
Nodi irrisolti, garbuglio di domande che mi hanno lungamente interpellato dopo la fine degli studi universitari sperimentando le enormi energie che si scatenano
quando si osa superare la paura sottesa a progettare e a vivere un mondo nuovo.
Non sembri buffo, ma ho provato a rispondere se tutto questo vissuto mi ha avvicinato o meno alla mia condizione di uomo, a ciò che sono negli anni diventato rispetto proprio alla dirompente
forza di quelle straordinarie energie messe in campo, all’idea di trasformare me stesso, lo stato delle cose presenti.
Abbaglio, eppure c’era del vero. Vero a metà, perché solo una parte di cancello si spalancò allora, ma non riguardava noi, usciti con le ossa rotte e a capo basso, vinti, stritolati nell’angolo o
posti nel collo dell’imbuto, dinanzi altri abbagli: scelta della lotta armata o del lavoro in banca o, ancor peggio, di finire nel luridume, una pera d’eroina nel braccio, inzuppato di piscio e
di vomito.
Prima la Milano da bere e poi la folle rincorsa nello stagno salvifico (?) del proprio orticello. Atomizzati nella melassa di un’epoca sempre più esasperatamente individuale, pagando il conto
della ribellione, tra i cocci delle nostre esistenze irrisolte. Alla deriva, lontani da un mondo sempre meno nostro, fingendo di vivere… di stare al passo.
Di nuovo, come un ragazzetto, a tu per tu con i dilemmi esistenziali: la lenta metamorfosi mi riporta all’origine, alla mia coscienza pulita. Racconto nel racconto, fuor di metafora, che
significa? Forse nulla, un lucido escamotage metaletterario, un io nell’io, per dire la confusione, la malattia, il cancro, il veleno.
A proposito di Pasolini
La leggo e la rileggo questa lucidissima e acuta analisi di Pasolini e non posso fare a meno di chiedermi: perchè non c'è traccia di qualcosa che le assomigli nella "produzione" culturale, nella
narrativa, poesia, ecc... degli ultimi venti anni? Quanto, a causa di questa (chiamiamola con un eufemismo) "distrazione intellettuale" ha pesato nella polverizzazione del pensiero? Quanto
nell'incapacità della politica di riuscire a interpretare e orientare istanze di trasformazione che non "scimmiottassero" politiche, in buona sostanza, di
ispirazione liberista?
Purtroppo, è da tempo che anch'io lo sostengo, non so dar torto a P.P.P. quando scrive: "Adesso risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più
niente da fare".
E voi, come la pensate?
*
Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole, e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che
sfuggono alla logica comune. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi odio con particolare veemenza il potere di questi giorni. E’ un potere che
manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore,
istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti. Sono caduti
dei valori, e sono stati sostituiti con altri valori. Sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti da altri modelli di comportamento. Questa sostituzione non è stata
voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dal nuovo potere consumistico, cioè la nostra industria italiana pluri-nazionale e anche quella nazionale degli industrialotti, voleva che
gli italiani consumassero in un certo modo, un certo tipo di merce, e per consumarlo dovevano realizzare un nuovo modello umano. Il regime è un regime democratico, però quella acculturazione,
quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente ad ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente,
distruggendo le varie realtà particolari. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi ultimi anni. E stato una specie di
incubo, in cui abbiamo visto attorno a noi l’Italia distruggersi e sparire. Adesso risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da
fare. P. Pasolini
Una vicenda che mi ha profondamente colpito...
Mohamed è morto per i nostri pomodori
Mohamed si è accasciato mentre raccoglieva i pomodori. Il caldo eccessivo, il sole forte, probabilmente la stanchezza, lo hanno stroncato: è successo l’altroieri,
alle due del pomeriggio, in un campo di Nardò, in provincia di Lecce. Il bracciante, un immigrato sudanese di 47 anni, non aveva un contratto, ma era in possesso della carta di
soggiorno in quanto richiedente asilo. L’azienda per cui lavorava è attualmente sotto processo per un caso di cui si è molto parlato a Lecce, un’organizzazione
criminale sgominata nel 2011 grazie all’operazione di polizia Sabr (dal nome di uno dei caporali): le accuse, per sedici imputati, imprenditori e caporali ancora in attesa di
una sentenza di prima grado, vanno dall’associazione per delinquere alla riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, all’intermediazione illecita
e sfruttamento del lavoro, estorsione e falso, e comprendono anche la tratta di persone.
Dodici ore sotto il sole
Ieri, per la morte di Mohamed, sono finiti sul registro degli indagati il titolare dell’azienda agricola per cui lavorava, la moglie di quest’ultimo e il caporale che lo aveva
portato nel campo. Mohamed, raccontano Antonio Gagliardi e Yvan Sagnet, sindacalisti della Flai Cgil, era arrivato da pochi giorni a Nardò: come tantissimi altri
braccianti usava spostarsi nei diversi territori di raccolta, in tutto il Sud, a seconda delle stagioni. La moglie e la figlia piccola si trovavano infatti a Catania,
e appena appresa la notizia sono partite immediatamente per raggiungere il centro pugliese.
«Mohamed lavorava per 3,50 euro a cassone — spiega Sagnet, sindacalista della Flai — Ciascun cassone pesa 3 quintali, e più ne riempi, più vieni pagato. La giornata
di lavoro inizia alle 5 del mattino e finisce tra le 17 e le 18: si passano 12 ore sotto il sole, a faticare come bestie. Mohamed probabilmente non era abituato,
era la prima volta che raccoglieva pomodori, e i 42 gradi, la pressione psicologica, sono stati fatali. Non si conosce ancora il motivo esatto della morte, le autorità hanno
disposto un’autopsia».
Erano irregolari anche i due lavoratori che si trovavano vicino all’uomo e che hanno lanciato l’allarme, come non erano a norma dal punto di vista della sicurezza altri
28 braccianti registrati dalla polizia in quel momento nel campo. «L’autoambulanza, chiamata dagli altri lavoratori, è arrivata dopo due ore — dice Sagnet — ma ormai era troppo
tardi e Mohamed era già morto».
La storia, drammatica già in sé, diventa ancora più significativa se si guarda il contesto in cui è avvenuta: innanzitutto, come detto, l’azienda coinvolta era già sotto
processo. E in quello stesso processo, avviato nel gennaio 2013 dopo due anni di indagini su una tratta di clandestini dall’Africa all’Italia, si sono costituite come parti civili
anche la Flai e la Cgil. Ma evidentemente le cause legali, le imputazioni penali, non bastano a fermare certi imprenditori “spregiudicati”. Stesso discorso per
i caporali, spesso immigrati anche loro: gli imputati per il caso Sabr, spiegano alla Flai Cgil, sono ad esempio tunisini, algerini, sudanesi.
Ma non basta, perché nel 2011 c’era stata un’altra vittima tra i braccianti di Nardò: «Un ragazzo era morto in una baracca e non nel campo — racconta Sagnet — Non abbiamo mai
capito per quale motivo, ma deve aver contribuito la durezza del lavoro». Proprio nel 2011 è scoppiata una rivolta a Nardò, con uno sciopero dei migranti durato 13 giorni,
e che poi ha acceso i riflettori sul territorio e ha contribuito alla riuscita dell’operazione Sabr, quella che ha portato sotto processo i presunti
trafficanti di uomini.
Sagnet, camerunense, era uno di quei braccianti ribelli, e da allora è cresciuto fino a diventare sindacalista della Flai Cgil. «Se non è andata come
a Rosarno — aggiunge il suo collega Antonio Gagliardi — è stato grazie al fatto che il sindacato ha saputo incanalare quelle lotte, e al successivo intervento delle
autorità. Poi abbiamo deciso di costituirci parte civile».
Il collocamento non funziona
«Ma tante cose ancora non funzionano — conclude Gagliardi — Ad esempio le liste di collocamento pubbliche che noi del sindacato abbiamo fortemente voluto: ci sono e sono uno
strumento importante, ma non è obbligatorio per le imprese pescare i lavoratori solo da lì, e quindi ritengono più comodo ed economico utilizzare ancora oggi
i caporali».
«La morte di Mohamed non può restare un fatto di cronaca estiva, è un atto di accusa verso un mercato del lavoro agricolo colpito dalla piaga dello sfruttamento —
dice Stefania Crogi, segretaria generale della Flai Cgil — È una situazione che denunciamo e contrastiamo da anni, incontrando enormi difficoltà anche da parte di chi —
politica e istituzioni — dovrebbe dare risposte forti e immediate. Mohamed è morto perché non poteva alzare la testa per chiedere aiuto, non poteva far valere
i suoi diritti».
Ecco un articolo assai meditato, e su cui continuare a meditare, scritto da Roberto della Seta su HuffingtonPost. L'argomento è di quelli inerenti la sfera della libertà
di pensiero in ordine all'in-troduzione nel nostro codice del reato di "negazionismo".
La poesia è necessariamente politica e fondamento della politica
“L’amore positivo della vita cerca l’integrità. Poiché cerca l’integrità dell’uomo, la poesia, in una società come quella in cui viviamo, è necessariamente rivoluzionaria – è il non
accettare fondamen- tale. La poesia non ha mai detto a qualcuno d’avere pazienza.
Il poema non spiega, implica. Il poema non spiega il fiume o la spiaggia: mi dice che la mia vita è implicata nel fiume o nella spiaggia.
Come dice Pascoaes *[scrittore e poeta portoghese,1877 - 1952, la nota è mia]*:
Ah se non fosse per la bruma del mattino E per questa vecchia finestra dove M’affaccerò per udire la voce delle cose Io non sarei quello che sono.
È la poesia che mi implica, che mi fa esistere nello stare e mi fa stare nell’esistere. È la poesia che rende intero il mio stare sulla terra. E poiché è la più profonda implicazione dell’uomo
nel reale, la poesia è necessariamente politica e fondamento della politica.
La poesia cerca infatti il vero stare sulla terra dell’uomo e perciò non può estraniarsi da quella forma dello stare sulla terra che è la politica. Così come cerca la vera relazione dell’uomo con
l’albero o con il fiume, il poeta cerca la vera relazione con gli altri uomini. Questo l’obbliga a cercare ciò che è giusto, questo lo implica in quella ricerca di giustizia che è la politica. E
poiché cerca l’integrità, la poesia è, per sua natura, disalienazione, principio di disalienazione, disalienazione primordiale. Libertà primordiale, giustizia primordiale...
Cerchiamo la coincidenza tra lo stare e l’esistere. Cercare, l’integrità dello stare sulla terra è la ricerca della poesia. Per questo rigettiamo l’uso borghese della cultura che separa il
cervello dalla mano. Che separa il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale. Che separa l’uomo da sé stesso, dagli altri e dalla vita.
Per questo la politica non può mai programmare la poesia.
Compete alla poesia, che è per sua natura libertà e liberazione, ispirare e profetizzare tutti i cammini della disalienazione. E quando la parola della poesia non coincide con la politica, è la
politica che deve essere corretta. Per questo è proprio della verità e dell’essenza della rivoluzione che la poesia possa sempre creare liberamente il proprio cammino. Ed è molto importante che
si comprenda chiaramente che l’arte non è lusso né ornamento. La storia ci mostra che l’uomo paleolitico ha dipinto le pareti delle caverne prima di saper cuocere l’argilla, prima di saper
lavorare la terra. Ha dipinto per vivere. Perché non siamo soltanto animali stimolati nella lotta per la sopravvivenza”.
Sophia de Mello, estratti dal discorso al I Congresso degli Scrittori Portoghesi, 10 maggio 1975.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.
Pablo Neruda
OmaggiandoMiguel de Cervantes
A tutti gli illusi, a quelli che parlano al vento. Ai
pazzi per amore, ai vi- sionari, a coloro che da- rebbero la vita per rea- lizzare un sogno. Ai reietti, ai respinti, agli esclusi. Ai folli veri o presunti. Agli uomini di cuore, a coloro che si
ostinano a credere nel sentimento puro. A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci, alle idee e ai sogni. A
chi non si ar- rende mai, a chi viene deriso e giudicato. Ai poeti del quotidiano. Ai “vincibili” dunque, e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a
combattere di nuovo. Agli eroi dimenticati e ai vagabondi. A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali, ancora si sente invincibile. A chi non ha paura di dire quello che pensa. A chi
ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà. A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione. A tutti i cavalieri erranti. In qualche modo, forse è giusto e ci sta bene… a tutti i
teatranti.
"dallo
spettacolo 'Don Chisciotte' del regista, attore e drammaturgo Corrado d'Elia"
Un anno dopo...
Nulla è stato facile o semplice. Poteva esserlo?
I giorni, le settimane, i mesi dopo la morte della mia compagna, sono stati un continuo susseguirsi di sentimenti compulsi, stati d'animo feroci oscillanti tra
l'incredulità che Lei non ci fosse più e la rabbia verso chi se l'era portata via.
Ho temuto di soccombere, schiacciato sotto il peso di una assenza che annullava qualsiasi presenza. A farmi più pau- ra i silenzi che tappezzavano la casa, soprattutto la sera, quando con
l'approssimarsi del buio la malinconia dilatava all'inverosimile il dolore.
Ti serve "tempo", dicevano in tanti...
"Tempo, non c'è altro... vedrai che molto si sistema!".
A me, serviva invece capire: il quotidiano, il presente, che farne di me senza di Lei...
Ho chiuso finestre e balconi, spalancando tutto me stesso all'imponderabile della pagina bianca, l'unico luogo dove - scevro da ogni pudore - potevo leccare il sale della sofferenza, del
sentimento, la profondità di un senso che si era frantumato, come uno specchio, in mille frammenti che riflettevano innumerevoli attimi della nostra vita. Attimi divenuti afoni, freddi,
annichiliti dalla morte...
Nella follia in cui il dolore ti chiude, sbagliando pensi che per ritrovare la vita, lo slancio necessario a viverla, possa bastare radunare quei pezzi sparsi, il Noi che si era rotto in
modo così traumatico, assumendo a realtà il passato, qualcosa che non esisteva più. Un'illusione che t'ingabbia, rendendo sterili i sentimenti verso la persona cara.
No, non c'è tempo che possa fare da colla, che riaggiusti il danno, le linee della frantumazione. Non c'è tempo che possa restituirti l'immagine intera, gli attimi di ciò che è
stato. Come un bravo artigiano devi metterti là e inventarne una nuova di vita, cosciente che quella che hai fortunatamente vissuto assieme a Lei possa aiutarti a rendere accettabile quel breve
tratto di strada ancora da percorrere; cosciente che la Sua presenza continua nelle piccole conquiste quotidiane, nel sorriso che torna a poco a poco sulle labbra nella gentilezza del
ricordo.
Amor mio, non voglio rincorrere fantasmi, ma avere e sentire in me la persona bella che tu sei stata, la donna di cui mi sono innamorato, compagna per quarant'anni.
Riposa in pace Lily, vola libera nei tuoi cieli, tra le radici della tua eternità terrena. Aver percorso con te un solo minuto di vita è valso a fare del mio cuore un giardino per sempre
fiorito...
16/01/2015
Altre due citazioni su cui riflettere
"L’utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai.
A cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare".
Eduardo Galeano
4/01/2015
° ° °
"È’ questo il difetto delle parole.
Stabiliamo che non c’è altro mezzo d’intenderci e di spiegarci, e finiamo con lo scoprire che restiamo a metà della spiegazione e così lontani dal comprenderci
che sarebbe stato molto meglio lasciare agli occhi e al gesto il loro peso di silenzio.
Forse anche il gesto è un di più.
In fin dei conti, non è altro che il disegno di una parola, il muoversi di una frase nello spazio.
Ci restano gli occhi e il loro accesso privilegiato alle apparizioni".
Josè Saramago
(20/12/04)
Qualcuno può dargli torto!
Leggo dal post di Beatrice, amica virtuale di fb, questa citazione:
"Non dobbiamo prendercela se ci dicono che siamo un popolo di manichini: è vero ci stanno toglien- do di tutto, ormai ci fanno pagare anche l'aria, e noi che facciamo? Niente pugni in tasca
contro la classe dirigente, avevamo in passato il potere della carta e penna e della ribellione, ora restiamo inermi a sbirciare che le cose cambino. Non cambia nulla in questo paese fatto di
corruzione e potere non si fa la rivoluzione, le idee son scadute, come la nostra forza".
Subcomandante Insurgente Marcos
(19/12/04)
Mare Nostrum, mare di morte
Diffusi i numeri che raccontano le tragedie dell'emigrazione. Dagli inizi del 2014 nel Mediterraneo hanno trovato la morte 3.419 tra donne, uomini e bambini. "La strada più mortale del
mondo" è la definizione data dall'UNHCR, l'agenzia dell'ONU deputata a seguire i rifugiati.
(11/12/04)
"La strada più mortale del mondo". Così l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Unhcr, ha definito il Mediterraneo. - See more at:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/onu-unhcr-3419-migranti-morti-in-mare-nel-2014-72d26787-246e-4f94-b92c-ad6ad6e632f5.html#sthash.ZRugDTRc.dpuf
"La strada più mortale del mondo". Così l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Unhcr, ha definito il Mediterraneo. - See more at:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/onu-unhcr-3419-migranti-morti-in-mare-nel-2014-72d26787-246e-4f94-b92c-ad6ad6e632f5.html#sthash.ZRugDTRc.dpuf
"La strada più mortale del mondo". Così l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Unhcr, ha definito il Mediterraneo. - See more at:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/onu-unhcr-3419-migranti-morti-in-mare-nel-2014-72d26787-246e-4f94-b92c-ad6ad6e632f5.html#sthash.ZRugDTRc.dpuf
"La strada più mortale del mondo". Così l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Unhcr, ha definito il Mediterraneo. - See more at:
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/onu-unhcr-3419-migranti-morti-in-mare-nel-2014-72d26787-246e-4f94-b92c-ad6ad6e632f5.html#sthash.ZRugDTRc.dpuf
Considerazioni semi-serie: nel cortile di casa
Quanto si paventava da mesi in famiglia è accaduto. Il "Rosso" (nomignolo da noi attribuito a un gat- tone che gira nei dintorni di casa, vero boss tra la popolazione felina), si è incontrato e
probabilmente scontrato col nostro Quique detto il "monco" (così chiamato a causa - purtroppo - della coda restata impigliata in qualche rete di recinzione e in seguito amputata).
Nessuno di noi ha visto come sono andate le cose, se in questa casereccia sfida all'O.K. Corral S. Bia- gio le abbia prese Quique o il Rosso. So solo che tornando
dal supermercato ho trovato il Rosso defi- lato sotto un auto e il Monco al centro del cortile/parcheggio, aria impettita e una faccia da sberloni tanto era tronfio.
Dopo cena, carezzandolo, mi sono accorto di alcune piccole ferite attorno al collo con diverse chiaz- zette di pelo mancante. Un eloquente segno, come ci ha insegnato il grande Aedo, dello
scontro tra guerrieri!
Ora, a meno che sia finita pari e patta, non resta da appurare chi dei due si è assiso sullo scranno del boss. Francamente mi spiacerebbe fosse il Monco: di questi tempi e con l'aria che gira non
è proprio uno status socialmente invidiabile... anche se...
(9/12/04)
C'è un tratto comportamentale in molti animali che, oltre a commuovermi, me li fa sentire così inti- mamente vicini. E' quando sollevano il muso e prendono a odorare il vento...
(6/12/04)
Di citazioni per definire un libro ne ho lette tante, ma questa, sinceramente, credo le batta tutte.
"Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi".
FRANZ KAFKA
(16/11/04)
Il muro e la letteratura
A 25 anni dalla caduta del muro sappiamo ben poco di come scrittori e poeti abbiamo vissuto e rappresentato nelle loro opere la fine di un mondo e le problematiche
connesse all'unificazione. Non scopro nulla se affermo che accanto alla trattazione storica è la letteratura a svelarci quanto è celato nell'intimo della società. Navigando in internet ho trovato
un ottimo e meticoloso lavorodi analisi sugli autori tedeschi pubblicati in Italia dal 1990 ai giorni nostri.Me lo appunto
qui...
La cosa più terribile è usare l'intelligenza per far del male agli altri.
(15/10/04)
Tango, da sempre impazzisco per questa musica, per il fascino e la potenza che esprime. Devo scriverci sull'argomento qualcosa e, soprattutto, imparare a ballarlo...
Scrivere è come scolpire: l’opera viene fuori togliendo.
Appunto questa citazione che mi ha riempito la testa di immagini surreali:
"È vero che le cicale cantano, ma è un canto che viene da un altro mondo, è lo stridore dell'invisibile sega che sta tagliando le fondamenta di questo". José Saramago
Ancora su Pasolini
Mi appunto questa citazione di Pasolini nella quale mi ci ritrovo appieno.
"Prevedo la spoliticizzazione completa dell'Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei
genitori nelle scuole, la politica dal bas- so... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo,
è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come."
P. Pasolini
Dati pubblicati da un istituto di ricerca
In Italia la disparità di reddito aumentata del 33%. Da metà degli anni '80 fino al 2008, la disugua- glianza economica è cresciuta del 33% (dato più alto fra i paesi
OCSE, la cui media è del 12%). Al punto che oggi l'1% delle persone più ricche detiene più di quanto posseduto dal 60% della popola- zione (36,6 milioni di persone); mentre dal 2008 a oggi, gli
italiani che versano in povertà assoluta sono quasi raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10% dell'intera popo- lazione.
Altri dati
Un nuovo rapporto dell’UNICEF rileva che, dal 2008, 2,6 milioni di bambini nella gran parte dei pae- si ricchi del mondo sono
scivolati sotto la soglia di povertà. Oggi la stima dei bambini che vivono in povertà nel mondo sviluppato è di 76,5 milioni.
Questo sito utilizza i cookie.
Questo sito utilizza i cookie per offrirti la migliore esperienza di navigazione possibile. Per accettare l'uso dei cookie, clicca sull'opzione sottostante "Sì, accetto". Per maggiori informazioni sui cookie che utilizziamo e su come personalizzare i parametri relativi al loro uso, consulta la nostra Informativa sui cookie. Ulteriori dettagli qui: Informativa sui cookie